(Messaggi dalle terre dei miscredenti)
Anche in Epistulae e partibus infidelium, terza tappa di un’opera magna che ci rivela una straordinaria vocazione, la poesia di Michele Arcangelo Nigro si muove costantemente tra racconto e illuminazione: tra un’immagine scheggiata, puntiforme, balenante e un’immagine, invece, distesa e per così dire panoramica. Insomma il rispecchiamento del reale e la riflessione sul reale si mescolano e si fondono in qualcosa che può far pensare al cosiddetto flusso di coscienza, con le sue continuità, appunto, e con le sue pause, con le sue distensioni e con le sue contrazioni, con le sue linearità e con le sue istantaneità, con la sua forma privilegiata nel tratto più denotativo e nel suo continuum ritmico-sintattico, attraverso cui, proprio nell’andamento intermittente, si distende il flusso dell’esistenza. Un’esistenza messa a fuoco sotto la lente dell’intelligenza ed è un’intelligenza che si dispone pienamente alla coscienza. È una poesia che da sempre contempla e comprende la denuncia drammatica di un processo di contaminazione, di inquinamento, peggio di decomposizione, della natura e dei valori e della cultura dell’uomo. In una chiave per così dire illuministica, in cui l’intelligenza è costantemente l’altra faccia della sensibilità e la scrittura, precisa e minuta, è il complemento di una disposizione per altro naturale all’immaginazione. Di fronte alla realtà incancrenita, che è il riferimento costante di questi versi, l’atteggiamento del poeta è quello del rifiuto, di una resistenza premeditata, di una volontà netta di non adeguarsi, di non cedere alle lusinghe dei mostri che nascono dentro e fuori di noi. (Dalla prefazione di Paolo Ruffilli)