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Rivista Internazionale di Poesia, Arte e Teatro
POESIA MESSICANA : Alí Chumacero

poesia messicana : ALí CHUMACERO

anno 3 - N° 10
19 Ottobre 2018

Alí Chumacero Lora (Acaponeta, Nayarit, 1918 – Città del Messico, 2010). Nonostante sia uno dei più grandi poeti messicani del XX secolo e fra i più amati insieme a Jaime Sabines, la sua opera è scarsamente conosciuta in Europa e del tutto ignorata in Italia. La sua antologia poetica Altri devono morire / Otros han de morir, che prestissimo daremo alle stampe con la traduzione di Emilio Coco e l’introduzione e la selezione di Marco Antonio Campos, è la prima a comparire nel nostro Paese.
A proposito della sua arte poetica, scrive Campos: «Ad altri poeti possiamo portare via versi, frammenti e persino poesie e credere che facciamo bene o che ci guadagnino in questo modo. Fare una cosa simile con Chumacero è aggressione diretta perché il verso si incastona esattamente nella poesia. […] Secondo me, il miglior Chumacero non lo troviamo nei sonetti né nelle poesie brevi, ma nelle poesie di media estensione e soprattutto in quelle lunghe, anche se queste ultime si contano sulle dita della mano». Seguendo le indicazioni di Campos, oggi offriamo ai nostri lettori la lettura di Il responso del pellegrino / El responso del peregrino, tratto dalla terza e ultima raccolta di Chumachero, Palabras en reposo (1956).









EL RESPONSO DEL PEREGRINO
 
 
1
 
Yo, pecador, a orillas de tus ojos
miro nacer la tempestad.
 
Sumiso dardo, voz en la espesura,
incrédulo desciendo al manantial de gracia;
en tu solar olvida el corazón
su falso testimonio, la serpiente
de luz y aciago fallecer, relámpago vencido
en la límpida zona de laúdes
que a mi maldad despliega tu ternura.
 
Elegida entre todas las mujeres,
al ángelus te anuncias pastora de esplendores
y la alondra de Heráclito se agosta
cuando a tu piel acerca su denuedo.
 
Oh cítara del alma, armónica al pesar,
del luto hermana: aíslas en tu efigie
el vértigo camino de Damasco
y sobre el aire dejas la orla del perdón,
como si ungida de piedad sintieras
el aura de mi paso desolado.
 
María te designo, paloma que insinúa
páramos amorosos y esperanzas,
reina de erguidas arpas y de soberbios nardos;
te miro y el silencio atónito presiente
pudor y languidez, la corona de mirto
llevada a la ribera donde mis pies reposan,
donde te nombro y en la luz flameas
como viento imprevisto que incendiara
la melodía de tu nombre y fuese,
sílaba a sílaba, erigiendo en olas
el muro de mi salvación.
 
Hablo y en la palabra permaneces.
No turbo, si te invoco,
el tranquilo fluir de tu mirada;
bajo la insomne nave tornas el cuerpo emblema
del ser incomparable, la obediencia fugaz
al eco de tu infancia milagrosa,
cuando, juntas las manos sobre el pecho,
limpia de infamia y destrucción
de ti ascendía al mundo la imagen del laurel.
 
Petrificada estrella, temerosa
frente a la virgen tempestad.
 
 
2
 
Aunque a cuchillo caigan nuestros hijos
e impávida del rostro airado baje a ellos
la furia del escarnio; aunque la ira
en signo de expiación señale el fiel de la balanza
y encima de su voz suspensa
el filo de la espada incandescente,
prolonga de tu barro mi linaje
– contrita descendencia secuestrada
en la fúnebre Pathmos, isla mía–
mientras mi lengua en su aflicción te nombra 
la primogénita del alma.
 
Ofensa y bienestar serán la compañía
de nuestro persistir sentados a la mesa,
plática y plática en los labios niños.
Mas un día el murmullo cederá
al arcángel que todo inmoviliza;
un hálito de sueño llenará las alcobas
y cerca del café la espumeante sábana
dirá con su oleaje: “Aquí reposa
en paz quien bien moría”.
 
(Bajo la inerme noche, nada
dominará el turbio fragor
de las beatas, como acordes:
“Ruega por él, ruega por él…”)
 
En ti mis ojos dejarán su mundo, a tu llorar confiados,
llamas, ceniza, música y un mar embravecido
al fin recobrarán su aureola,
y con tu manos arrojarás la tierra,
polvo eres triunfal sobre el despojo ciego,
júbilo ni penumbra, mudo frente al amor.
 
Óleo en los labios, llevarás mi angustia
como a Edipo su báculo final lo conducía
por la invencible noche;
hermosa cruzarás mi derrotado himno
y no podré invocarte, no podré
ni contemplar el duelo de tu rostro,
purísima y transida, arca, paloma, lápida y laurel.
 
Regresarás a casa y, si alguien te pregunta,
nada responderás: sólo tus ojos
reflejarán la tempestad.
 

3
 
Ruega por mí y mi impía estirpe, ruega
a la hora solemne de la hora
el día de estupor en Josafat,
cuando el juicio de Dios levante su dominio
sobre el gélido valle y lo ilumine
de soledad y mármoles aullantes.
 
Tiempo de recordar las noches y los días,
la distensión del alma: todo petrificado
en su orfandad, cordero fidelísimo
e inmóvil en su cima, transcurriendo
por un inerte imperio de sollozos,
lejos de vanidad de vanidades.
 
Acaso entonces alce la nostalgia
horror y olvidos, porque acaso
el reino de la dicha sólo sea
tocar, oír, oler, gustar y ver
el despeño de la esperanza.
 
Sola, comprenderás mi fe desvanecida,
el pavor de mirar siempre el vacío
y gemirás amarga cuando sientas que eres
cristiana sepultura de mi desolación.
 
Fiesta de Pascua, en el desierto inmenso
añorarás la tempestad.
 
 

 
 







 
IL RESPONSORIO DEL PELLEGRINO
 
 
1
 
Peccatore, sul bordo dei tuoi occhi,
guardo nascere la tempesta.
 
Assoggettato dardo, voce nella foltezza,
alla fonte di grazia scendo incredulo;
nel tuo giardino dimentica il cuore
la falsa testimonianza, il serpente
di luce e di funesto perire, lampo vinto
dentro la zona limpida di liuti
che la tua tenerezza dispiega alla mia malvagità.
 
Scelta fra tutte le donne,
all’angelus ti annunci pastora di splendori
e appassisce l’allodola di Eraclito
quando il suo ardore accosta alla tua pelle.
 
O cetra tu dell’anima, armonica alla pena,
del lutto sei sorella: nella tua effige isoli
la via vertiginosa di Damasco
e sopra l’aria lasci la frangia del perdono,
come se unta di pietà sentissi
l’aura del mio passo desolato.
 
Maria ti designo, colomba che rammenta
lande colme d’amore e di speranze,
regina di arpe erette e di superbi nardi;
ti guardo e il silenzio attonito presente
pudore e languidezza, la corona di mirto
portata sulla riva dove i miei piedi trovano riposo,
dove ti nomino, luce fiammante
come vento istantaneo che incendi
la melodia del tuo nome e vada,
sillaba dopo sillaba, erigendo in onde
il muro della mia salvazione.
 
Parlo e nella parola tu perduri.
Non turbo, se t’invoco,
il tranquillo fluire del tuo sguardo;
nell’insonne navata fai del corpo un emblema
dell’ente incomparabile, l’obbedienza fugace
all’eco della tua miracolosa infanzia,
quando, le mani giunte sopra il petto,
limpida d’ignominia e distruzione
da te saliva al mondo l’immagine del lauro.
 
Pietrificata stella, timorosa
di fronte alla vergine tempesta.
 
 
2
 
Anche se a coltellate cadono i nostri figli
e impavida scende su di loro con il volto irato
la furia dello scherno; anche se l’ira
fa pendere in segno di espiazione l’ago della bilancia
e scende sulla sua voce sospesa
il filo della spada incandescente,
prolunga del tuo fango il mio lignaggio
– contrita discendenza sequestrata
nella funerea Patmo, isola mia – 
mentre nella sua pena la mia lingua ti nomina
la primogenita dell’anima.
 
L’offesa e il benessere faranno compagnia
a noi che continuiamo a star seduti a tavola,
lunghe conversazioni sulle labbra bambine.
Ma un giorno il mormorio cederà
all’arcangelo che immobilizza tutto;
un alito di sogno riempirà le alcove
e vicino al caffè lo schiumoso lenzuolo
dirà col suo ondeggiare: “Qui riposa
in pace chi bene è morto”.
 
(Sotto l’inerme notte, niente
dominerà il torbido fragore
delle beghine in coro:
“Prega per lui, prega per lui…”)
 
Il loro mondo in te lasceranno i miei occhi, fidando nel tuo
     pianto
fiamme, cenere, musica e un mare scatenato
torneranno in possesso della loro aureola,
e con le mani butterai la terra,
polvere sei trionfale sopra le spoglie cieche,
giubilo né penombra, taciturno al cospetto dell’amore.
 
Olio sopra le labbra, porterai la mia angoscia
come il bastone conduceva Edipo
nella notte invincibile;
bella attraverserai il mio sconfitto inno
e non potrò invocarti, non potrò
contemplare la pena del tuo volto,
purissima e affranta, arca, colomba, lapide e alloro.
 
Ritornerai a casa. Se qualcuno ti chiede,
niente risponderai: solo i tuoi occhi
rifletteranno la tempesta.


3
 
Prega per me e per la mia empia stirpe,
prega nell’ora solenne dell’ora
il giorno di stupore a Giosafatte,
quando di Dio il giudizio alzerà il suo dominio
sulla gelida valle illuminandola
di solitudine e ululanti marmi.
 
Tempo di ricordare le notti e i giorni,
il riposo dell’anima: tutto pietrificato
nella propria orfanezza, agnello fedelissimo,
fermo sulla sua cima, trascorrendo
per un inerte impero di singhiozzi
da vanità di vanità lontano.
 
Forse allora alzerà la nostalgia
dimenticanze e orrore, perché forse
il regno della gioia sarà solo
toccare, udire, odorare, gustare e vedere
il crollo della speranza.
 
Sola, comprenderai la mia fede svanita,
la paura di guardare sempre il vuoto
e gemerai amara se sentirai di essere
cristiana sepoltura della mia afflizione.
 
Festa di Pasqua, nel deserto immenso
rimpiangerai la tempesta.

 
 





 
Da: Alí Chumacero, Altri devono morire / Otros han de morir, Raffaelli 2018.
Traduzione di E. Coco, introduzione e selezione di M.A. Campos.